lunedì 29 luglio 2013

Come campa un giornale online?

La sostenibilità economica è un tema centrale per qualsiasi tipo di impresa. Il tema diventa ancora più appassionante quando riguarda l'editoria digitale.
Quando vado in giro a presentare Varesenews arriva sempre il momento che qualcuno alza la mano e ti chiede: "Si, va bene, ma voi dove trovate i soldi?" Messa così è un po' grezza, ma alla fine il tema è davvero questo.

Oggi a questo dibattito, sempre più aperto, e per ora purtroppo anche senza molte soluzioni, danno un buon contributo Pierluca Santoro e Massimo Russo.
Apre le danze il primo sul suo blog Il giornalaio con un post dal titolo chiaro: I Conti dei Quotidiani All Digital Italiani. Dopo aver fatto un excursus della questione Santoro riporta un lavoro di Claudio Plazzotta su Italia Oggi di venerdì 26 scorso. Si analizzano, un po' all'ingrosso, i conti di alcune testate italiane e il dato è sconfortante. Santoro arriva così a una conclusione e una domanda.
Se insomma la sopravvivenza è un successo e la stabilità un miraggio il rischio che le testate pure digital italiane seguano il percorso della free press cartacea è concreto.
Difficile dire cosa sia necessario fare, se non analizzando specificatamente ciascuna testata con tempi e costi che rientrano nella consulenza e non più nella divulgazione di questa TAZ, ma incrociando ricavi ed accessi, utenti unici, è chiaro ormai che la strada perseguita sin ora non è quella che paga, da nessun punto di vista.
Massimo Russo, da qualche mese direttore di Wired ha molta competenza in materia perché arriva da un lungo lavoro in Kataweb. Anche per lui, sul suo blog Cablogrammi, nel post Giornalismo, la difficile ricerca di modelli economici digitali, c'è una domanda fondamentale:
di fronte alla disgregazione dei modelli economici tradizionali, il giornalismo digitale è riuscito finora a fornire risposte che dimostrino che il nuovo giornalismo può stare in piedi? La questione è vitale, perché non esiste giornalismo indipendente che non sia anche economicamente sano. 
Guardando ai numeri che riassume Santoro, la risposta che in Italia i fatti danno a questa domanda finora è no. I soli che siano riusciti a vivere sul digitale con profitto sono marchi tradizionali, che giocano sull'incrocio tra diverse piattaforme. 
Russo mette in fila sei questioni su cui riflettere. Queste riguardano la pubblicità display, il mobile, i contenuti a pagamento, modelli no profit, modelli di scelte editoriali e modelli di business legati non solo alla pubblicità.
Il direttore di Wired mettendo a confronto l'esperienza dei giornali "tradizionali" chiude affermando
Il punto è che la transizione al digitale ha distrutto per sempre l'inscindibilità di questo modello.
Nel nuovo mondo, per il sostentamento del giornalismo valgono regole diverse, a volte parziali o provvisorie. Bisogna solo non smettere di cercarle.
Ringrazio entrambi per i loro contributi, oltre che per le lusinghiere citazioni.
Provo a dare un primo contributo, per ora sintetico e da riprendere prossimamente.
Tutte le analisi fatte riguardano realtà nazionali. Occorre tener conto che per ben dieci anni dalla chiusura de Il Nuovo nel 2001, non è nato più nulla che avesse una ambizione nazionale. Mettere a confronto Dagospia e Blitz con Il Post, L'Inkiesta e Lettera43 è una grande sciocchezza perché i primi non sono giornali. Ci sarà una ragione del perché non nascevano esperienze editoriali? Ma la domanda da porsi è anche un'altra: perché a Milano non c'è nemmeno un giornale online "locale" e invece vengono fondati nel giro di pochi mesi tre testate proprio lì, ma con ambizioni più ampie?
Non è una questione da poco perché apre un'altra domanda seria. Perché in Italia non si riesce a fare una vera ricerca di cosa è avvenuto e sta avvenendo nell'editoria locale?
Qui c'è un punto chiave per avere altri dati seri su come stia andando questo settore. Finché queste realtà locali saranno considerate realtà minori o figliastre, non potremmo mai sapere davvero come siamo messi.
Si fa tanto parlare di digitale, ma nei fatti per il business abbiamo riproposto esattamente gli schemi dell'editoria tradizionale. C'è stato il tentativo di cercare qualche soluzione. Un esempio è il consorzio PPN, ma i volumi generati sono piccoli e di certo non risolutivi. Nel frattempo il nostro lavoro cambia a ritmi vertiginosi, e spesso rimaniamo abbagliati da fenomeni che sono centrali, ma più per gli addetti ai lavori che per trovare soluzioni di business.
Stiamo lavorando per la seconda edizione di Glocalnews, un festival dedicato proprio al giornalismo e alla comunicazione locale in una dimensione globale come la Rete da sempre è. Fisseremo diversi momenti di incontro su questi temi perché sono centrali.
Tornando alla questione sollevata da Santoro e ripressa da Russo, pur con i bilanci in ordine da anni e con una costante e continua crescita anche noi di Varesenews non abbiamo ricette magiche. Crediamo però che la risposta non possa prescindere da alcuni elementi:
1) il locale è un microcosmo interessante per comprendere meglio diversi fenomeni generali
2 il giornale deve essere strategico per il territorio. È nelle comunità di riferimento la sua forza, ben oltre i social o gli strumenti.
3) occorre fare i conti con la convergenza degli strumenti. Prima era il web, poi la webtv, poi i social e ora il real time. Questo cambia il modo non solo di fare informazione, ma anche di poter far business. Lillo Montalto, in un recentissimo ebook appena uscito, ha messo in evidenza questo ultimo punto grazie alla sua esperienza in una società, Scribble, che fa del real time il suo core business
4) occorre fare propria la cultura digitale, come dice Mario Tedeschini Lalli. Sembra una banalità, ma non lo è perché richiede una flessibilità e un continuo livello di aggiornamento a cui nessuno è abituato, nemmeno chi ci vive da sempre come quelli di Varesenews.
5) la soluzione non sarà nel mobile anche se questo oggi è imprescindibile. Varesenews in quattro anni è passato dal 2,4 al 27% di visite da device mobile a cui poi si somma il traffico delle app. Riprenderò questo punto perché questo post è già troppo lungo;
6) diversificazioni del business con progetti "ibridi". Occorre esser presenti sul territorio avendo una sezione del lavoro dedicata anche a prodotti di comunicazione.
7) praticare l'umiltà, la creatività e anche un po' di eresia. Purtroppo il cammino per arrivare a regolarizzare il lavoro per noi è stato lungo e faticoso, però abbiamo dieci giornalisti professionisti e due lo diventeranno presto. Perché, malgrado tutto, facciamo anche i praticantati veri.
8) giornale a pagamento. Anche qui si possono praticare ipotesi "ibride" che non contemplino solo il paypall del caso. Ne riparliamo perché anche questo richiede un lungo e articolato ragionamento.
Gli stimoli di oggi e degli ultimi tempi mi mettono di fronte alla responsabilità di impegnarmi maggiormente per contribuire allo sviluppo di una seria riflessione. Ci penserò e cercherò di uscire di più dal "guscio varesino", ben sapendo però che il lavoro concreto non è una scusa, ma una delle ragioni del perché spesso non si viene correttamente considerati. Ma questo è anch'esso un altro discorso.

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