mercoledì 3 luglio 2013

Potevamo avere la luna

“Avevamo la luna. E ora siamo nel cono d’ombra di una lunga eclisse. Ma quando è cominciato il tramonto?”
Un incipit che svela le ragioni del libro. Michele Mezza mette subito le carte in tavola. “L’azzardo del libro che avete fra le mani, scritto per larghissima parte nei mesi precedenti le elezioni del 2013, è quello di anticipare una crisi sociale, rintracciandone l’origine nell’abbaglio di cinquant’anni fa”. 
Secondo Mezza la crisi attuale, sia quella economica - sociale, che quella della sinistra sono da ricercare
nel triennio che va dal 1962 al 1964. Un cronotopo, come lo chiama l’autore, “un artificio retorico. Quel triennio fu una cerniera, una piattaforma come diremo oggi, che raccorda un periodo più ampio”. Successe di tutto in quelle stagioni. L’apertura del Concilio Vaticano secondo, l’annunci della spedizione lunare da parte degli Stati Uniti, i Beatles e molto altro. 
Avevamo la luna è un progetto editoriale che va ben oltre il libro. Ricco di QR code rimanda a molto materiale multimediale raccolto in un sito internet. Ogni capitolo termina poi con una lunga intervista a un protagonista della materia trattata. 
“La tesi che intendiamo proporre - scrive Mezza - la denunciamo subito: l’inadeguatezza del sistema politico, economico e istituzionale a comprendere e padroneggiare oggi i nuovi alfabeti della società della conoscenza che, a nostro avviso, è alla base dell’attuale criticità del modo di essere nazione dell’Italia, ha la sua origine proprio nel buco nero creatosi in quel fatidico arco di tempo in cui passammo dalla speranza del molto che iniziava alla delusione del tutto che finiva. In quel periodo, ci pare di poter dire, si registrò infatti una convergenza, e si abbozzò una contaminazione, tra fenomeni inizialmente distinti e distanti tra loro. È questa l’origine del cronotopo del mancato sviluppo italiano”.
Michele Mezza mette al centro due precisi fatti: la vendita della divisione elettronica della Olivetti alla General Electric e “il tintinnar di sciabole che Pietro Nenni avverte nei corridoi del Quirinale”
Una miopia industriale da una parte, e il fallimento delle speranze nate con il primo centro sinistra dall’altra. 
L’attuale crisi, secondo l’autore, ha origine in quegli anni, e per lui la relazione tra il lavoro, la fabbrica e i cambiamenti del mondo digitale hanno strette connessioni a quel triennio.
“Il caso Olivetti forse fu qualcosa di più di una inadeguatezza della politica italiana. Fu la prima occasione di un rifiuto di collocare le categorie politiche al di fuori del rassicurante perimetro della fabbrica che si conosceva e dal quale si era riconosciuti”.
Da quella miopia, che non seppe vedere come avevamo a portata di mano la luna, si sviluppano le problematiche mai più risolte. 
“L’attuale disorientamento delle culture politiche che discendono dal conflitto capitale-lavoro di fronte alle nuove dinamiche sociali veicolate dalla rete, nella comunicazione prima e nelle istituzioni poi, ci parlano di una discontinuità non ancora metabolizzata tra il vecchio mondo fordista, che aveva generato i soggetti del tradizionale conflitto sociale, e il nuovo mondo dei social network, che scompone e frantuma le vecchie identità”. 
Le conclusioni a cui arriva Mezza sono agrodolci. “Avevamo la luna? Forse no. La luna dell’innovazione non l’abbiamo mai realmente conquistata. Ma siamo riusciti, almeno, ad accarezzarla. Questo si. E ne siamo subito sbalzati via. Da forze esterne, ma anche per responsabilità nostre. Come oggi. Siamo una delle comunità più affini al nuovo mondo digitale, ma siamo ancora tra i paesi meno consapevoli della propria natura. Siamo istintivamente cittadini della rete, ma non riusciamo a esprimere culture di governo adeguate alla complessità dello scenario che ci circonda. Sembra quasi che questa nuova natura ci sgomenti, ci faccia paura. Non vogliamo rassegnarci al fatto che possiamo adattarci a un mondo nuovo, diverso. E, per questo, non riusciamo a far parlare gli innovatori tra loro. Non facciamo sistema. Esattamente come accadde cinquant’anni fa”.
Una situazione che tiene insieme molti aspetti, a partire dalla politica della sinistra. Nel giugno del 1955 Norberto Bobbio a questo proposito scriveva: “Io credo che a qualcuno che ci guardasse dal di fuori noi daremmo l’impressione di coloro che sanno benissimo come la società italiana deve essere, ma non sanno assolutamente come è. E si capisce: per stabilire una volta per sempre come deve essere, basta la deduzione trascendentale, per capire come è occorrono indagini laboriose”.
Avevamo la luna parla di oggi, del nostro non riuscire più a guardare al futuro, dell’incapacità di esser contemporanei e fiduciosi. La distanza da quegli anni appare con tutta la forza e Mezza prende a prestito le parole da un reportage del Washington Post che afferma che “a negare all’Italia la possibilità di varcare le porte della modernità è un gap culturale che ci affligge da tempo. In sostanza siamo troppo estranei alla cultura dello sviluppo e della competizione per misurarci con il mercato. Soprattutto nel nuovo mercato a rete, dove la comunicazione è il nuovo linguaggio produttivo”.

La speranza per Mezza viene solo dalla consapevolezza dei cambiamenti originati dall’era digitale e dal sapere. “Il sapere, nel suo nuovo contesto di una rete accessibile e sussidiaria, deve essere un bene disponibile, abbondante, simultaneo, non rivale: esattamente le condizioni per quella città del sole che da secoli è sinonimo di felicità, libertà e autorealizzazione di ogni individuo”.

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