venerdì 18 maggio 2012

Sergio Ramirez e i sogni infranti della Rivoluzione


«La rivoluzione fu una circostanza speciale e ognuno veniva chiamato ad assumere un ruolo. Non sarei entrato in politica per il gusto della politica, e se fossimo stati in un paese normale avrei fatto sempre solo lo scrittore».
Sergio Ramirez è un personaggio centrale nella società nicaraguense degli ultimi quaranta anni.
Nato nel 1942 a Masatepe, un piccolo centro a sud di Managua, ha iniziato a scrivere a 17 anni. I suoi libri sono tradotti in quasi tutto il mondo, anche se in Italia si trova con difficoltà solo Adios muchachos, sulla storia della rivoluzione sandinista. La sua storia è emblematica rispetto a quella del suo paese. Si è opposto alla dittatura di Somoza e quando la rivoluzione sandinista trionfò divenne vicepresidente della Repubblica. Lasciò la politica attiva nel 1996 per forti contrasti con Daniel Ortega. 
«Il sandinismo aveva un’ispirazione etica, spirituale e poi politica. È stato un sogno, una spinta a lottare per cambiare il nostro paese, ma mai si sarebbe trasformato nella ricerca di apparati di potere».

Ramirez tra Tomas Borge alla sinistra e Daniel Ortega alla destra
La sua biografia è ricca di diversi ruoli. Scrittore di fama internazionale, docente, giornalista e certamente politico. Qual è la sua vera vocazione?
«La letteratura. Scrivo da quando avevo 17 anni. Occorre tener conto che siamo in America Latina e qui la mescolanza tra politica e scrittura è molto diffusa. Stupirebbe il contrario perché il pubblico chiede di sapere quali siano le opinioni di chi scrive. Fare diversamente verrebbe visto come la volontà di stare in una torre d’avorio».
Nel suo sito si legge che lo scrittore si ispira “dove finiscono le cose che si vedono e inizia l’oscurità piena di inquietudine per ciò che non si conosce”. È sempre la sua ispirazione?
«Ci sono cose che non si possono vedere e descrivere nella realtà. La letteratura aiuta molto in questo e lo scrittore percepisce il mondo con i suoi occhi e questa è la bellezza del mio lavoro».
Lei non scrive solo romanzi, come mai?
«Nella storia del Nicaragua ci sono tante cose da raccontare. Non viviamo una condizione di tranquillità. Qui abbiamo avuto a che fare con la dittatura, con la corruzione, il narcotraffico. Il romanzo racconta la vita delle persone, ma qui non può prescindere da queste realtà e quindi ne è influenzato. La vita pubblica affetta quella privata. Se fossimo in un paese diverso forse si parlerebbe di altre cose».
Ramirez con Gabriel Garcia Marquez e relative mogli
Negli anni della rivoluzione il teologo Giulio Girardi ipotizzò una confluenza tra sandinismo, marxismo e cristianesimo. Ci scrisse anche un libro. Che ne è di quel pensiero?
«Oggi non è attuale. Nel 1979, quando trionfò la rivoluzione, il Nicaragua divenne un laboratorio vivo per la teologia della liberazione. Questo paese era un terreno fertile dove il governo interpretava tutte le anime politiche e religiose. Ci fu una vera alleanza tra la sinistra e i cristiani che vivevano una forte opzione verso i poveri. Gutierrez e altri teologi videro il Nicaragua come un luogo in cui sperimentare, ma tutto questo era certamente minoritario. La conferenza episcopale, da sempre conservatrice, benedisse questa fase storica e nel novembre del 1979 Obando Y Bravo, allora vescovo di Managua, spedì una lettera pastorale in cui si tessevano elogi del socialismo nicaraguense. Poi la cosa cambiò. Il pontificato di Giovanni Paolo II venne a Puebla e di fatto sancì la fine dell’esperienza iniziata a Medellin sotto Paolo VI. La chiesa nicaraguense prese forza dalla posizione del Papa e iniziò a chiedere a gran voce le dimissioni dei sacerdoti che avevano responsabilità nel governo. Come dicevo prima, la teologia della liberazione non aveva grandi consensi tra i sacerdoti e la spinta a contrastare quelli che invece si impegnavano attivamente a favore dei poveri era davvero forte».
E oggi com’è la situazione?
«La teologia della liberazione non esiste più e tutto è cambiato. Obando Y Bravo è il maggior alleato di Ortega e del governo, e ricopre incarichi istituzionali. La conferenza episcopale è sempre contraria ed è l’unico vero partito di opposizione, ma il Vaticano se ne guarda bene dal prendere posizione e sta solo a osservare».
Eden Pastora dice che la contro rivoluzione è un fatto storico che segue ogni rivoluzione, ma in Nicaragua fu più violenta per le sue posizioni marxiste leniniste. È davvero andata così?
«Io ero più gramsciano che leninista, ma questo non è importante e di certo non ha influito la nostra storia. Non so quanto interessi quello che dice Eden Pastora, ma come andarono le cose lo dicono i documenti. Fu una guerra della Cia contro il regolare governo sandinista. Queste erano le due parti in causa e Pastora prese i soldi dalla Cia, quindi non stava certamente con il Nicaragua».
Nei giorni scorsi lei ha raccontato con ironia, ma anche provocazione come andò la storia del possibile canale tra Atlantico e Pacifico alla fine dell’Ottocento. Per una serie di casi fortuiti fu scelto di non farlo in Nicaragua e avviare i lavori a Panama. Come mai ci torna su?
«Non so se il governo stia pensando seriamente a tutto quello che dice. Fare un nuovo canale, una ferrovia richiederebbe investimenti incredibili. Un paese dove non c’è scuola per un milione di bambini e dove la metà della popolazione vive senza acqua potabile, ha ben altre priorità che pensare di costruire un altro canale, soprattutto quando stanno per iniziare i lavori per ingrandire Panama».
Un ritratto di Ramirez di Sergio Michilini
A questo proposito quale possibile sviluppo vede per il Nicaragua?
«Il nostro paese oggi produce esattamente quello che produceva nell’Ottocento: carne, caffè, minerali, banano, zucchero. Da allora non è cambiato niente. L’unica differenza è che oggi abbiamo buoni prezzi, ma questa economia potrebbe entrare in crisi in un attimo, soprattutto se cambiasse qualcosa in Venezuela dopo l’appoggio forte che dà Chavez a Ortega. Il paese per svilupparsi deve trasformarsi e la prima cosa che deve cambiare è la formazione e l’educazione. È qui che dobbiamo concentrare gli investimenti. Oggi si spende il 3% del Pil in questi settori. Dobbiamo passare almeno all’8%. Un segnale viene dai test di ammissione all’università. I nostri studenti passano in una percentuale bassissima sia per la matematica che per la lingua. L’altro punto importante è la riforma fiscale. In Nicaragua l’80% delle entrate vengono dalle imposte indirette aumentando così le differenze economiche e penalizzando le classi povere. Gli imprenditori si ribellano a qualsiasi ipotesi di riforma, e posso capirli perché loro ne traggono tutti i vantaggi così».
Esiste un problema di democrazia in Nicaragua?
«Il populismo oggi è la ricetta perché la gente che deve trovare le soluzioni per vivere giorno per giorno e non si preoccupa certamente delle strutture istituzionali. Basti pensare che il 60% vive in uno stato di povertà e che il 30% non ha nemmeno un dollaro al giorno per la propria sopravvivenza».
Di fronte a problemi così drammatici che ruolo hanno gli intellettuali come lei oggi?
«Quando ci fu la rivoluzione la mescolanza delle varie realtà sociali coincise anche con quella delle età diverse. E la nostra presenza fu un segnale importante. Oggi noi non siamo decisivi in niente e anche se può dispiacermi, io non credo che le cose cambino per quello che scriviamo noi o sosteniamo nei dibattiti alla televisione».
Nel 1979 ci fu una forte presenza straniera. Potrebbe esser ancora questa a cambiare le cose?
«Per i giovani di tanti paesi nel mondo la rivoluzione sandinista fu una possibile alternativa a stili di vita dei propri paesi che loro non condividevano. La loro partecipazione fu sincera e traeva ispirazione più da ragioni etiche e spirituali che non da quelle politiche. Per questo il sandinismo resta un grande sogno. Resto però convinto che oggi abbiamo bisogno di profonde riforme».
Come sono i suoi rapporti con Ortega?
«Non ne ho. L’ho sentito l’ultima volta nel 2006 quando mi telefonò dicendomi che aveva vinto le elezioni e non lo vedevo dai funerali di uno dei dodici ministri e comandanti morto nel 1999. Del resto facciamo vite diverse e io sto metà del tempo fuori dal Nicaragua».
Non c’è ironia e neppure disillusione nelle parole di Ramirez. È consapevole che quell’epoca rivoluzionaria non c’è più, e che il paese ha bisogno di altro rispetto al populismo intriso di propaganda rappresentato da Ortega.

Intervista realizzata a Managua con Valeria Ocampo Porras

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